“La scuola è un’istituzione che, nel migliore dei casi, ha almeno 150 anni di storia. L’idea che in quattro settimane si possano trovare modalità efficaci, diverse da quelle testate per 150 anni, è pura follia”.
Francesco è un insegnante e mi introduce da subito nel cuore del sistema scolastico e come esso stia affrontando il cambiamento imposto dalle norme restrittive per fronteggiare il coronavirus.
Il suo lavoro si svolge con i ragazzi delle medie di un istituto comprensivo privato, all’interno di un quartiere della periferia romana, composto principalmente da classi socio-economiche dell’alta borghesia.
Il suo lavoro si svolge con i ragazzi delle medie di un istituto comprensivo privato, all’interno di un quartiere della periferia romana, composto principalmente da classi socio-economiche dell’alta borghesia.
Una volta che il nostro Paese ha compreso la portata del fenomeno e sono arrivate le misure restrittive, la scuola ha reagito in maniera tempestiva. Nell’istituto in cui lavora Francesco, composto da classi benestanti, il passaggio alla didattica online, dal punto di vista tecnologico, non è stato traumatico. I veri problemi hanno riguardato le leggi sulla privacy e le attese dei genitori che, nel contesto privato, sono clienti del servizio offerto dalla scuola e non semplici fruitori di un diritto garantito dalla costituzione. La scuola privata, tuttavia, è soggetta alle leggi del mercato e le risorse sono meno cospicue di quello che ci si aspetti, tanto più quando i clienti sono colpiti dalla crisi economica che il coronavirus sta diffondendo.
“La scuola paritaria è paritaria, ma a dispetto di quello che sembra, non è una scuola che ha risorse più elevate di quella pubblica, ma molte meno. Quelle risorse si contraggono nei momenti di difficoltà del mercato e tu devi comunque assicurare un servizio che sia qualitativamente abbastanza alto da giustificare il fatto che le persone paghino per venire nel tuo istituto, piuttosto che andare ad una scuola pubblica gratuita. Alcuni genitori hanno più figli e magari sono in cassa integrazione o lavorano per un’azienda che sta andando a rotoli. Ci hanno chiesto degli sconti o delle dilazioni di pagamento. Con tutto ciò che comporta questa situazione, anche per quanto riguarda il pagamento degli stipendi degli insegnanti”.
Stefania, invece, è un’insegnante di una scuola media pubblica. L’istituto per cui lavora si trova in un’altra periferia romana, composta in questo caso principalmente da classi socio-economiche a basso reddito. Il passaggio alla didattica online è stato problematico soprattutto per l’assenza di strumenti e competenze tecnologiche, non solo da parte dei docenti, ma anche e soprattutto da parte delle famiglie e degli studenti.
“Considera che la scuola pubblica ha un personale anziano, non tutti sono in grado di usare la tecnologia. Il problema principale però è che siccome il mio contesto non è formato da persone con un livello culturale alto, non tutti i ragazzi sono sullo stesso piano. Ci sono ragazzi che sono in casa-famiglia o che non hanno gli strumenti adatti. Non li raggiungerai mai tutti e poi ci sono anche quelli che non hanno voglia di farsi raggiungere”.
Le parole di Stefania sono estremamente utili per cominciare a spostare l’attenzione dalla dotazione tecnologica di cui la scuola è fornita, alla relazione fra l’istituzione scolastica, le famiglie ed i ragazzi.
Nel contesto privato, le attese delle famiglie sono elevate e se da una parte ciò si traduce in un’alta motivazione degli studenti a raggiungere standard di eccellenza, dall’altra l’investimento economico delle famiglie porta alla pretesa di avere garantito lo stesso servizio di alta qualità, nelle stesse forme, a prescindere dal mutamento del contesto:
“La cosa più difficile è stata che, proprio perché si richiede un prodotto molto alto, i genitori si lamentassero che le lezioni, solitamente di un’ora, durassero mezz’ora. Ciò che il genitore non capisce è che per preparare quella mezz’ora di lezione, l’insegnante ha dovuto lavorare un’altra ora e mezza a produrre il materiale, perché tutto il materiale te lo devi preparare da te. Non puoi presentarti con un libro davanti allo schermo. Facciamo le due di notte per fare mappe concettuali, per registrare gli audio”.
Nella sistema pubblico, invece, la rappresentazione della scuola non sembra essere fondata tanto su dimensioni produttive, ma piuttosto su un assetto emozionale obbligante. Dice Stefania:
“I ragazzi che provengono da famiglie orientate ad un’istruzione medio-alta vengono a scuola perché devono raggiungere un certo livello. Gli altri sono ragazzi costretti dalla società cattiva e antipatica ad andare a scuola, loro non vivono la scuola come un diritto, ma come un dovere. Hai voglia che la Ministra parli di diritto allo studio, per loro lo studio è un dovere”.
La dimensione dell’obbligo diventa sempre più rilevante nel comprendere il passaggio epocale che il sistema dell’istruzione si ritrova ad affrontare in questo periodo e che riguarda principalmente il significato attribuito alla didattica online, vista come contrapposta, più che come integrata, a quella in presenza. L’ipotesi che qui facciamo è che Francesco e Stefania non stiano semplicemente riportando opinioni personali, ma che interpretino le categorie culturali condivise nei propri sistemi di appartenenza.
La Psicologia, spesso intesa come disciplina orientata a trattare gli individui ed il loro mondo “interno”, può invece occuparsi efficacemente delle culture condivise nei contesti entro cui gli individui vivono e lavorano. Spostandoci dal piano individuale a quello delle relazioni simboliche, è possibile comprendere quanto i significati attribuiti al contesto (ad esempio, che cosa significa la scuola e quale sia la funzione attesa da chi ci lavora come insegnante o da chi ne fruisce come studente), siano condivisi, spesso a livello inconscio, nelle relazioni fra i partecipanti al contesto stesso. I vissuti emozionali, come in questo caso il vissuto di obbligo, allora non sono caratteristiche interne dell’individuo, ma modi di stare in relazione con gli altri. Analizzare tali vissuti permette di fare ipotesi su come sia possibile intervenire nei sistemi culturali, permettendone il loro sviluppo produttivo.
Nel contesto privato, orientato al raggiungimento di obiettivi formativi ed educativi, più o meno condivisi con i propri clienti (le famiglie e gli studenti), il passaggio alla didattica online è un’occasione di ripensamento dei modelli educativi, nei quali la condivisione del senso con gli studenti diventa essenziale:
“In questa nuova situazione, sicuramente tutti i vecchi metodi d’insegnamento vanno in crisi, perché si scopre finalmente che non importa veramente il come, il quanto o il voto, ma importa che il ragazzo abbia acquisito un’abilità o una conoscenza. Quindi conta anche la motivazione, tutto il resto è importante ma secondario”.
Nel contesto pubblico, invece, la relazione con i fruitori del servizio scolastico sembra più problematica. La dimensione dell’obbligo, in assenza di una condivisione del senso su cosa sia e a cosa serva la scuola, fra istituzione e famiglia, porta ad un reciproco controllo dell’operato altrui, fondato sulla diffidenza. Da una parte, come riporta Stefania, la funzione valutativa, svolta attraverso la didattica online, è “falsificata” dall’assenza di un controllo quotidiano sul lavoro svolto dagli studenti, che invece il contesto fisico garantisce:
“Per me è una valutazione che non ha senso: io non so come tu hai fatto i compiti. Qualcuno ha addirittura fatto copia-incolla da Wikipedia, ragazzi che fino a dicembre non mettevano la penna sul foglio, hanno cominciato ad utilizzare paroloni. Fatta così è tutta una farsa”.
Dall’altra, l’aspetto più interessante è che la didattica online sembra rovesciare i rapporti. La classe scolastica fisica, allora, sembra proteggere l’insegnante stesso dalla valutazione di chi fruisce del suo lavoro, percepito come a sua volta controllante e giudicante:
“Ma tu immagina fare lezione sapendo che c’è anche il genitore che sta ascoltando. Io obiettivamente quando preparo una lezione ho l’ansia, proprio perché so che quel messaggio è ascoltato dai genitori. Alcuni genitori, solo perché sei insegnante, pensano che tu abbia torto, perché sentono minacciato il loro ruolo autoritario. Il ruolo dell’insegnante è minato dai genitori. In classe è un’altra cosa”.
In entrambi i contesti abbiamo visto che l’aspetto più problematico riguarda la relazione fra la scuola e le famiglie. Se nel privato la questione più complessa sembra essere la pretesa dei clienti, che non tiene conto dei cambiamenti nel carico di lavoro educativo e formativo introdotti dalla didattica online, nel contesto pubblico la dimensione dell’obbligo porta ad una relazione interamente fondata sul controllo, che diventa sempre più evidente nel passaggio all’online.
La dimensione dell’obbligo ci fornisce gli indizi per comprendere quali siano i repertori culturali e psicologici che insegnanti, genitori e studenti condividono. Tutti e tre i vertici della relazione concorrono a costruire un sistema di controllo che appare fondato sulla sfiducia reciproca: tanto gli studenti sono disinteressati alla scuola, vista come un dovere; tanto gli insegnanti sono percepiti come autorità “incapace” e illegittima dalle famiglie; quanto le famiglie sono viste come una minaccia al ruolo di insegnamento incarnato dalla scuola. La messa in discussione del controllo, tuttavia, non garantisce di per sé lo sviluppo del sistema scolastico, se non è sostenuta dalla condivisione di obiettivi educativi e dalla reciproca legittimazione fra la scuola stessa e le famiglie, che hanno come scopo comune la formazione degli studenti.
In assenza di tale condivisione e di quale sia il senso del diritto allo studio, evocato più volte nei comunicati del Ministro Azzolina, la crisi della dimensione dell’obbligo sembra lasciare indietro tutti coloro che sentono la scuola come un adempimento:
“Siamo tornati agli anni ‘50, senza la dimensione dell’obbligo la scuola diventa produttiva solo a chi interessa”.