Da qualche settimana sta circolando in rete ed in televisione lo spot del progetto The Climate Pledge, lanciato dal CEO di Amazon, Jeff Bezos, e che prevede il coinvolgimento attivo di 108 multinazionali che si impegnano a raggiungere il livello di zero emissioni di CO2 entro il 2040. Fra le aderenti ci sono grandissime compagnie quali Microsoft, Unilever e Mercedes, ma mancano, guarda caso, competitor di Amazon quali Apple e Google.
Il video mostra immagini da diverse zone del mondo, nelle quali, in uno scenario devastato dall’inquinamento, persone appartenenti a differenti culture (anglosassoni, tedeschi, italiani, spagnoli, giapponesi) lanciano un monito alle imprese, considerate la causa principale dell’inquinamento atmosferico, coerentemente con quanto affermano le statistiche sul climate change.
La caratteristica è che tutti i protagonisti del video appartengono alla Generazione Z, gli Zoomer, quella classe d’età nata fra il 1997 e metà degli anni ‘10 del 2000, e che comprende dunque gli attuali ventenni, adolescenti e bambini.
Ad una prima occhiata il messaggio appare un topos del discorso ambientalista: stiamo rovinando il pianeta e chi ne subirà le conseguenze maggiori saranno le future generazioni. Verso la fine del video, un bambino di origini asiatiche dice con tenera enfasi “I’m only six. You figure it out” (“ho solo sei anni, sta a te capire [cosa fare]”).
Eppure c’è un elemento che sovverte la retorica classica sul discorso ambientale - una retorica spesso paternalista e gattopardiana - nel momento in cui sono gli stessi Zoomer a parlare, cioè quella classe generazionale che dall’esempio di Greta Thunberg in poi si sta imponendo quale portavoce dell’urgenza di un intervento per limitare i danni del cambiamento climatico, non più delegando al comportamento del singolo la responsabilità dell’inquinamento, quanto agli elementi strutturali del sistema produttivo capitalista.
Lo spot strizza l’occhio a questa versione generazionale del conflitto sociale, che ha radici ben più profonde e che s’inserisce in quella che nei paesi anglosassoni è chiamata generational warfare. Amazon identifica da subito qual è il nuovo target di consumatori che vuole intercettare, titillando il sistema di valori e la subcultura da loro espressi, accreditandosi sul piano etico senza rinunciare alla necessità di engagement del potenziale consumatore.
Il concetto di generazione è piuttosto recente. Esso nasce quando viene introdotto per la prima volta il concetto di cultura giovanile, cioè attorno alla metà degli anni ‘50, quando un capitalismo in forte espansione cominciava ad avere la necessità di diversificare i consumatori ed identificare nuovi potenziali clienti a cui rivolgere i propri prodotti.
Si cominciò così a parlare di Silent Generation (quella prebellica), di Baby Boomer (nata e cresciuta durante il boom economico postbellico), di Generazione X, di Generazione Y o Millennials (nata e cresciuta a cavallo del nuovo millennio), sino alla più recente, la Generazione Z o degli Zoomer, la prima vera generazione nativo-digitale.
Negli ultimi decenni questa attenzione sempre più ossessiva alle classificazioni generazionali, alla ricerca di target distinti “spiritualmente” gli uni dagli altri, è stata fomentata dalle principali società di consulenza, affamate di nuovi sistemi di profilazione da vendere all’imprese sia per motivi commerciali che di gestione delle risorse umane, avendo ampie ricadute sul piano identitario per gli stessi “utenti” organizzati in segmenti secondo la nascita.
Ciascuna generazione viene descritta come monolitica: nonni e bisnonni della Silent Generation erano conformisti, i Boomer liberali e spreconi, i Millennial fragili e narcisisti, gli Zoomer maggiormente materialisti e fortemente autocentrati, ma interessati all’ambiente come alla propria crescita personale.
Lo studio sociologico delle generazioni si è da sempre confrontato con una domanda centrale: sono gli eventi storici a determinare i tratti comuni a ciascuna generazione, o è la cultura giovanile nata dal basso ad indirizzare la Storia?
Gli Zoomer - come fu per i Boomer negli anni ‘60 e per i Millennial nei primi anni 2000 - sono convinti che la seconda ipotesi sia più vicina alla realtà. Nel libro Gen Z, Explained, quattro ricercatrici profetizzano l’arrivo di una nuova era guidata dalla Generazione Z, più attenta alle questioni ambientali, alle tematiche intersezionali, alla libertà individuale.
Come la generazione hippie degli anni ‘60 vedeva nella rivoluzione lisergica la strada maestra nella costruzione di un mondo migliore, oggi una piccola porzione di Zoomer guarda a sé stessa come avanguardia messianica verso un cambiamento reso necessario dalle colpe delle generazioni precedenti, in particolare i Boomer - i padri, considerati edonisti incapaci di prevedere il disastro che il sistema economico da loro costruito, fatto di sprechi e scarsa lungimiranza, stesse generando - ed i Millennials - i fratelli maggiori, ritenuti più consapevoli, ma fragili, incistati nel proprio narcisismo e incapaci di visioni a lungo termine.
Ogni guerra generazionale, tuttavia, ha profonde motivazioni psicoanalitiche, che tendiamo troppo spesso a sottovalutare. Quella attuale in particolare, tuttavia, ha caratteri peculiari piuttosto preoccupanti.
Thomas Ogden, importante psicoanalista nordamericano - uno dei teorici della riscoperta di Hans Loewald, psicoanalista tedesco post-freudiano, dimenticato troppo presto dalla stessa psicoanalisi - prova a riportare alla luce la riconcettualizzazione dell’Edipo offerta da Loewald quale scontro generazionale necessario al processo di individuazione che conduce all’età adulta.
Per Loewald, l’Edipo non parla dello sviluppo sessuale come era per Freud, quanto della necessità di commettere un parricidio rituale per assumere un posto nel mondo. Ciascuna generazione ha il compito di distruggere, riorganizzare e ricreare in maniera unica e personale ciò che le generazioni precedenti hanno già creato.
L’aspetto centrale del parricidio è tuttavia la tensione tra il debito del figlio verso le generazioni che lo precedono ed il suo desiderio di liberarsi per diventare una persona a sé stante. Il rapporto di dipendenza e autonomia è circolare, passa per l’uccisione del passato, ma anche per il riconoscimento del valore generato da quello stesso passato. Allo stesso tempo passa per la rinuncia da parte dei padri della funzione di guida, per assumere quella di predecessori ed infine di antenati da ricordare.
Come abbiamo visto, il concetto di generazione è una convenzione arbitraria, nata principalmente dalla necessità di creare dal nulla nuovi trend di consumo. Nonostante ciò, esso è un potente mezzo di costruzione identitaria collettiva, che permette di elaborare il conflitto simbolico fra passato e presente, fra genitori e figli, fra vecchio e nuovo.
Il vero problema con l’attuale welfare è la negazione di quel debito di cui parla Loewald. Il debito è piuttosto quello lasciato dai Boomer agli Zoomer, inteso meramente nella sua accezione economica (ciò che dovremo ripagare in termini monetari, di opportunità professionali, il conto verso il nostro pianeta), mentre il lascito dei padri - in termini di raggiungimento di diritti civili o di sviluppo di valori individuali liberali - non è riconosciuto, né considerato uno strumento culturale prezioso da cui ripartire, che favorisca un passaggio di consegne meno violento. D’altra parte, una classe dominante sempre più anziana che non rinuncia a passare da guida a predecessore, rende il conflitto ancor più esacerbato.
Così, padri eternamente adolescenti, incapaci di passare il testimone, costringono i figli ad un’eterna dipendenza. Figli carichi di rancore generazionale rifiutano il legame di dipendenza, contrapponendo una grandiosità narcisistica che non ammette debiti, ma anzi riconosce solo un credito infinito mai del tutto colmabile.
In attesa che una nuova generazione interrompa il ciclo. O che, più realisticamente, una nuova cultura superi la necessità di leggere la società in termini di divario generazionale.