L’immaginario del nuovo mondo

L’immaginario del nuovo mondo

La vacanza è per definizione uno spazio sospeso. Essere “in vacanza” significa sostare nel vacuum, nello spazio vuoto, inteso come spazio che si contrappone alle abitudini ricorrenti, alle azioni quotidiane solite.

In una accezione tutt’altro che vacanziera, l'esperienza del Coronavirus ci ha messo, collettivamente, in uno spazio/tempo sospeso, dove alcune essenziali coordinate del vivere quotidiano sono andate in crisi, mostrando la necessità di una revisione d’emergenza.

Accanto alle soluzioni orientate sulle prescrizioni comportamentali (che hanno definito il lecito e l’illecito), in un modo raramente così incisivo e immanente rispetto alla vita delle persone, la realtà è stata profondamente scossa. Da una parte abbiamo assistito alla profusione di segni che ci hanno mostrato la tangibile pericolosità del virus: relativamente a questo punto, la conta dei morti, ma ancora di più le immagini delle bare sono oggetti iperreali. Dall’altra, il proliferare di opinioni e versioni alternative degli stessi fatti, rifratte e moltiplicate in una pervasività sconcertante (non si è parlato d’altro, non si è visto altro per giorni e giorni), ha assunto dei contorni surreali. Così come sono stati e sono ancora in parte surreali alcuni scenari incontrati: le città improvvisamente deserte, la gente con mascherine e guanti per strada. 

Insieme a tutto quello che la pandemia sta portando, in termini di emergenza sanitaria, politica ed economica, c’è in atto un turbamento non meno importante: quello dell’immaginario.

L’immaginario è una dimensione essenziale del vivere, sia nella direzione della reificazione di dimensioni simboliche sia nella direzione della costruzione di scenari alternativi alla realtà così come la percepiamo.

Dal punto di vista psicologico, il luogo dell’immaginario si sovrappone al luogo della vacanza dell’oggetto (d’amore): il bambino, lasciato solo dalla mamma, accanto all’esperienza affettiva dirompente di dolore, angoscia, frustrazione, inizia a sviluppare la facoltà immaginativa. Il vuoto lasciato dalla mamma fisica si riempie progressivamente di immagini: i ricordi vengono rievocati e cuciti insieme, riassemblati, revisionati per diventare l’immagine futura, prevista e desiderata, di una situazione attesa (nella proiezione di felicità del bambino, la ricongiunzione con la madre amorevole).

La capacità di creare un immaginario positivo è stato, nelle narrazioni dei sopravvissuti a grandi esperienze angoscianti (come la detenzione nei lager), un elemento cruciale per la sopravvivenza.

Per tutto questo, è naturale che il momento di transizione che stiamo vivendo venga associato ad un immaginario da “nuovo mondo”, come se il Coronavirus fosse anche una frontiera di significazione del desiderio.  Come Giona nella Balena, abbiamo fantasticato su come sarebbe stato il mondo dopo. Il mondo alla fine del contagio, il mondo una volta usciti di casa. In quel mondo abbiamo proiettato desideri, paure, attese.

Da molte parti si è interpretato questa epidemia come segno della crisi dell’egocentrismo neoliberista e globalizzato. Come se stessimo pagando il prezzo di un atto troppo sfacciato di hybris, l’immaginario di reazione ha costellato un mondo generalmente più empatico, più affettivo, più inclusivo, meno tecnico, meno veloce, meno schizofrenico. Ci è sembrato che potesse essere arrivato il momento (il virus come monito) di riequilibrare il rapporto con la natura, spostarci delle logiche del profitto immediato del mercato e investire su un nuovo umanesimo. Il virus, si legge in molti interventi di intellettuali e pensatori, ha portato alla luce le nostre fragilità essenziali, ha puntato il dito sulla nostra finitezza inappellabile, ha mostrato quello che è davvero importante: gli affetti, l'interdipendenza. Come in quei racconti in cui il protagonista sta per morire e gli viene data una possibilità di revisione e rilancio della sua vita, in questo Canto di Natale collettivo abbiamo rivisto le nostre prospettive e le nostre priorità, a partire da una leva decisiva, la paura.

L’immaginario del nuovo mondo, che ci ha fatto dire, leggere e pensare “Non sarà più lo stesso”, è quindi innanzitutto un contenitore di desiderio. Che è una cosa immensa, visto che il desiderio (come e forse più della paura) muove l’azione. Perché questo immaginario non rimanga confinato nel possibile e sfiorisca in una retorica disabitata, bisogna quindi interrogarci su quanto la società (intesa nella dimensione del potere e della capacità di decisione) sia in grado di rilevare gli indizi e rendersi funzione del potere trasformativo del desiderio.

PrecedenteContro l’empatia o quasi
SuccessivoSindrome di Stoccolma: la rivoluzione del mondo in un attimo